Tangeri apre le porte dell’Africa, mettendo alla prova i turisti più ingenui ma comunque incantati dai suoi mille misteri
Tangeri è l’altra colonna d’Ercole. Con le sue enormi banchine spalancate sull’altrove e le sue mille case bianche, si erge orgogliosa dirimpetto alle vicine coste spagnole, con tutto il suo carico di storie, contraddizioni e inconfessabili segreti, che nemmeno il perenne scorrere delle correnti attraverso lo Stretto di Gibilterra è mai riuscito a cancellare.
Il suo passato
Inondata dalla luce riflessa dall’Atlantico, eclettica e spudorata, Tangeri è la porta che si apre all’Africa. Nel suo tumultuoso passato è stata fenicia, cartaginese, romana, vandala, bizantina, araba, portoghese, spagnola e britannica, persino covo di pirati; dal 1923 al 1956, grazie alla sua posizione geografica, anche Zona internazionale neutrale.
Il risultato? Una mescolanza di stili, lingue, sapori, architetture e stravaganti personaggi. Il più conosciuto è il grande viaggiatore berbero Ibn Battuta: qui nacque e da qui partì alla volta del mondo, facendovi ritorno (giusto per qualche giorno) dopo ben venticinque anni di peregrinazioni; ma si racconta anche del passaggio di Garibaldi, che a Tangeri soggiornò in esilio per un anno; e di Matisse, che dalla camera 35 del Grand Hotel Villa de France – tutt’oggi visitabile – scoprì la luce e il blu inquietante del Marocco.
Il suo presente
Inutile tentare di comprendere questa mutevole città. Meglio piuttosto sfogliarla come un libro, pagina dopo pagina, racconto nei racconti, senza mai domandare né cadere nella fretta del (pre)giudizio. Meglio accostarsi a lei dal mare, lentamente, passeggiando lungo la sua promenade. Qui i ragazzini galoppano a pelo di cavallo sulla spiaggia, le donne lavano i panni col favore della corrente e gli eternamente stanchi si addormentano al limitare della battigia, in barba all’alta marea.
Ma è a ridosso dei bastioni cittadini, che Tangeri ritrova la sua energia, tra accaniti venditori di hashish, arrotini in bicicletta che molano lame a colpi di pedale, cambiavalute dell’ultima ora, improvvisati banditori di pesce e imbonitori pronti ad approfittarsi della buona fede (o distrazione) altrui.
Tangeri mette alla prova. Alla prima svolta, si resta subito intrappolati in un labirintico sistema di vicoli dove è facile perdere l’orientamento e ritrovarsi assediati da sguardi indiscreti. Per uscirne, basta seguire l’aroma di glassa e di carne allo spiedo che si fa strada nel chiassoso vociare senza fiato verso il centro, fino alla caotica Place Petit Socco, con il suo storico Caffè Tingis, dove si accampava lo scrittore americano Paul Bowles, autore del troppo citato Il Tè nel deserto. Truman Capote, Gore Vidal e Tennessee William, invece, alternavano il Cafè Centrale al Gran Cafè de Paris, mentre gli scrittori beatnik Allen Ginsberg, Jack Kerouac e William Burroughs preferivano il Cafè Hafa. “Nessuno qui è esattamente ciò che sembra. Tangeri è una vasta colonia penale”, scriveva quest’ultimo. E a ragion veduta: la città, in quegli anni, era infatti un torbido ricettacolo di spie e ambigui diplomatici, blasonate ereditiere e rifugiati in fuga da guerre, artisti incompresi e viziate star del cinema.
La sua anima
Sovraccarica di racconti, Tangeri è una città navigata di voci, richiami a perdifiato e carretti a rotta di collo nel frenetico zigzagare della Médina. Impossibile evitarli. Come impossibile è non restare avvolti dai più disparati miasmi che, esaltati, alterati e tra loro sovrapposti, esalano da ogni dove, stritolando le nari di chiunque si addentri nei meandri del suq: agrumi, fritture, sigarette, cuoio, pesce (più o meno) fresco, argan, vello di capra, piscio, ambra, rosa, verdura marcia, muschio, sandalo, sudore, gelsomino. Ma soprattutto, menta. Giunge a sera inoltrata dentro enormi sacchi di iuta da 15 chili, portati faticosamente a mano dai facchini fin sulla soglia dei negozi. Una lunga scia aromatica che perdura per tutta la notte.
L’abbondanza di mercanzie che il suq è in grado di offrire è da Mille e una notte: stoffe pregiate, spezie remote, vertiginose essenze di rosa damascena e tappeti di lana tessuti a mano e tinti esclusivamente con colori naturali (tranne il nero, per il quale si ricorre alle rare pecore nere dell’Atlante). Strani incontri accadono tra queste anguste vie.
I volti
Per esempio con il vecchio Mohammed Aloui, che sostiene di discendere in linea diretta dalla famiglia di Maometto. O con la piccola Jasmine, del ristorante Kebdani, che a soli 6 anni già aiuta la mamma in cucina, servendo ai tavoli, sorridendo ai commensali e facendosi pagare con un’eloquente sfregata di dita, per poi sparecchiare con tanto di vassoio, strofinaccio e raccogli briciole.
Raffinata e dissoluta
C’è sempre un oltre, a Tangeri. All’infinito, senza tregua. Il raffinato quartiere bohémienne è un angolo di quiete ben lontano dal cicaleccio cittadino, dove gli artisti francesi hanno aperto botteghe, laboratori e atelier. Poco distante, il Dar el-Makhzen, seicentesco palazzo del sultano tutto fontane in marmo, decorazioni moresche e legni intagliati, vigila imponente dalla vetta della città, nella vecchia kasbah, un dedalo di stradine dove la gente comune vive, tra porte azzurre, pareti rosse, gatti randagi e murales variopinti al limite del lisergico.
Per lungo tempo, Tangeri si è quasi vantata del suo declino, vittima compiaciuta della dissolutezza e di una pessima reputazione. Da alcuni anni a questa parte però, il morale della città pare essersi risollevato. Il re Mohammed VI, infatti, ha progetti avveniristici per il futuro: un investimento di dieci miliardi di dollari potrebbe trasformare Tangeri in una sorta di Dubai del Marocco. Del resto, un antico adagio Tuareg dice che “se c’è una meta, anche il deserto diventa strada”.