Prima capitale dell’Impero ottomano, Bursa è oggi “la città dimenticata”, misteriosamente ignorata da buona parte dei turisti
Se non fosse stato per Mustafà, lo spirito di Bursa mi sarebbe sfuggito di mano come un aquilone in una giornata di vento. Mustafà è un professore di storia in pensione, dalla figura sottile, gli abiti grigi e i baffi a punta, che mi ha guidato attraverso il dedalo intricato di quella che fu la prima capitale dell’impero ottomano, ma che oggi i suoi stessi abitanti definiscono “la città dimenticata”. Troppo pochi sono i turisti che la visitano. Circostanza che ha però permesso a questa gemma lungo la Via della Seta di preservare la sua antica atmosfera, quella in grado di trattenere personaggi senza tempo e storie vecchie quanto la china del mondo.
Il mercante di seta
Mustafà si destreggia tra le vie formicolanti del bazar con la scaltrezza di un mago, attraversando scacchiere di caravanserragli tra loro incastrati come matrioske di voci in un mercanteggiare senza fine. Di stoffe pregiate, soprattutto. Come quelle di Ibrahim Hacivat, che si vanta di essere l’unico vero mercante di seta rimasto a Bursa, attività tramandata di padre in figlio fin dai tempi di Marco Polo in cui, nel caravanserraglio Koza Han, si commerciavano i bachi.
Mustafà non gli crede, ma lo lascia millantare, lo conosce da anni. Così come gli perdona la leggenda che da sempre racconta, quella di una principessa cinese esiliata a Bursa che contravvenne al divieto di esportare bachi da seta dalla Cina, portandone le uova nascoste tra i capelli. “Se non fosse stato per lei, non sarei qui”, si vanta Ibrahim.
L’ingresso del suo atelier è una cascata di preziosi tessuti, solenni come colonne di un antico tempio. All’interno, torri di scampoli di una luce rara e dalle mille e una tinta si elevano vertiginosi come a sorreggere il soffitto, una cupola bianca e puntellata di tondi vetri colorati, eredità di un vecchio hammam. Ibrahim ha appena ordinato il caffè turco.
Il caffè e i fondi del destino
Preparato a getto continuo, un cezve dopo l’altro, qui a Bursa viene servito su vassoi d’argento cesellati, con un lokum e un bicchierino di sciroppo alle rose. Mustafà vuole leggermi il destino. Dopo l’ultimo sorso, capovolge la tazzina sul piattino, la ruota tre volte in senso orario con la mano sinistra e quando si è raffreddata, la rigira per leggerne il responso. Per scaramanzia non lo rivelo, ma le alternative sono sempre le stesse: una vincita improvvisa, un nuovo lavoro, addirittura un marito in arrivo – l’ennesimo.
Karagöz e Hacivat
L’inarrestabile Mustafà vola. Imbocca improbabili scorciatoie e vicoli apparentemente ciechi, fino alla bottega di Şinasi Çelikkol, il primo marionettista della città, sempre eclissato nel suo laboratorio a dare fiato alle due marionette litigiose dell’antico teatro delle ombre turco, Karagöz e Hacivat, caricature ancestrali di un mondo che non esiste più. Snodabili e infilate su bacchette, sono originarie di Bursa e vengono realizzate in pelle animale, trattata fino a diventare trasparente.
Quando in negozio entra un visitatore, Şinasi scivola furtivamente dentro il suo teatrino, tira la tenda di carta e accende il lume. Qualche rudimentale rumore, una voce che si schiarisce ed ecco che ha inizio lo spettacolo, un altalenante coro di ombre e voci che si rincorrono, incalzano, inciampano su se stesse e capitombolano gambe all’aria, tra esagerazioni, doppi sensi e strampalati giochi verbali. Karagöz è un arguto uomo del popolo i cui espedienti sembrano avere la meglio sull’intellettuale Hacivat, fino a quando non si concludono in un tragicomico fallimento.
Bendir e salep
Una musica lamentosa e malinconica sale dal fondo di un vicolo, le note ancorate a un passato ormai lontano. Proviene dal Caffè Aşıklar, l’unico dove poter ascoltare canzoni popolari tutti i giorni, da mattino a sera. I musicisti, pensionati a tempo indeterminato, vi giungono armati di chitarra saracena e di bendir (tamburo), con il cantante che, ritto sulla sedia, concede al pubblico la sua voce di dolore. E un bicchiere di salep. Il primo giro lo offre lui.
Questa cremosa bevanda, anticamente considerata un medicinale, viene preparata sciogliendo nel latte una farina ricavata dai tuberi di alcune specie di orchidee. In Europa, sarebbe illegale, dato che l’orchidea è un fiore protetto; ma in Turchia, in cui non vige tale proibizione, viene consumata più che abbondantemente. Soprattutto al Caffè Aşıklar.
La Grande Moschea
Ašhadu an lā ilāha illā Allāh. Il muezzin richiama. E Mustafà risponde, conducendomi alla Grande Moschea dalle venti cupole per assistere al Maghrib, la preghiera del tramonto, un ondeggiare ininterrotto di genuflessioni in una penombra contemplativa che benedice con le sue 192 iscrizioni: “Se la grafia è simmetrica, sono scritte selgiuchide – mi rivela – se libera e fantasiosa, sono ottomane”.
Al centro, bianchi raggi di luce attraversano a filo di piombo l’ampia cupola di vetro, trafiggendo le acque della fontana in un gioco illusorio di specchi. Nell’angolo sud-est, invece, il più buio, si prega col viso rivolto alla Ka’ba ma con il cuore accostato all’immenso tappeto di brillante seta nera e filigrana d’oro, qui esposto come un oggetto di culto, quasi miracoloso. Proviene da La Mecca.
Mistici sufi
Si è fatta ormai sera. I lampioni, poco fuori dal centro storico, sono pallidi e discreti. Un mondo che dorme. Mustafà lo sveglia bussando alla porta di un edificio in pietra, tutto archi e vetrate colorate. È il Tasavvuf Vakfi, piccola scuola di misticismo intimamente frequentata solo dagli abitanti del posto.
Ad aprire, è un uomo vestito con una lunga tunica nera e un vistoso copricapo a cilindro simile a un vaso rovesciato. Un breve inchino di sussiego e ci dà il benvenuto nella sala centrale, con i muri costellati dalle immagini di tutti i maestri sufi che qui hanno insegnato. E se la balconata in legno è gremita di donne che, sedute sui tappeti, fanno a maglia per i loro nipotini sorseggiando tè alla menta, al piano inferiore, gli uomini sono tutti presi a gesticolare in interminabili discussioni che si spengono solo con l’arrivo in fila del maestro e degli allievi, le mani congiunte in adorazione. Gli astanti trattengono il fiato.
C’è magia anche nell’attesa. Ecco i tamburi. Poi i flauti. E i dervisci iniziano a danzare. Con i loro svolazzanti abiti bianchi o rossi, ruotano per trenta minuti, senza esitazione. Fino allo svenimento, che però non arriva mai. Un equilibrio sottile che solo la parola “Allah” ripetuta nella testa per tutto il tempo riesce a conservare, le braccia mollemente alzate come in trance, gli occhi semichiusi in una cieca fede. Ma ruotano anche i pensieri dei fedeli, qui riuniti in una diversa preghiera; e ruotano i loro animi, sollevati in girandole di vento verso un altrove inaccessibile, come se non fossero mai esistiti.