Alessandria d’Egitto, città dalle mille personalità e storie dalle profondità insondabili. Affascina, spaventa, ma soprattutto stupisce
A vederla da lontano, dal cuore di un mare inspiegabilmente sempre agitato, Alessandria d’Egitto sembra una città fatta di carta, pronta a sciogliersi alla prima ondata, o a piegarsi come un giunco alla prima folata di vento. Eppure c’è stato un tempo in cui questa perla del Mediterraneo era la culla indiscussa della storia. Fu talamo delle sublimi tresche amorose tra Cleopatra e Marco Aurelio – finché morte non li ha tristemente separati; prezioso ricettacolo di antichità perdute – come la tomba di Alessandro Il Grande, la cui collocazione resta un mistero a tutt’oggi irrisolto; perno di cultura con la più grande biblioteca del mondo antico, la Biblioteca reale di Alessandria – con i suoi 700 mila volumi, distrutta forse dal fuoco di Cesare, forse dall’ira di Zenobia, forse dall’integralismo di Teodosio, molto più probabilmente dalla vanità del califfo ‘Omar; infine, sede dell’imponente faro, settima delle Sette Meraviglie del Mondo che, dopo aver rischiarato per sedici secoli la via ai mercanti, venne irreparabilmente danneggiato da due violenti terremoti – e mai poi ricostruito. Il viaggiatore marocchino Ibn Battuta non se ne è mai dato pace: “Trovai il faro in un tale stato di rovina che non si riusciva più non solo a entrare ma nemmeno a raggiungere la porta”.
Oggi, Alessandria d’Egitto – dalla popolazione chiamata al- Iskandariyya – è una città di oltre 5 milioni di abitanti che possiede un fascino altrove irripetibile e un’urbanistico dalla bellezza piacevolmente decadente – e forse ormai decaduta. La si guarda con nostalgia, come si ammira una signora che un tempo doveva essere stata davvero molto bella. Un tempo. E oggi? Dalla finestra del quarto piano dell’albergo dove ho preso alloggio, un precario edificio a lato dello storico e scintillante Hotel Cecil, il traffico evapora in una cacofonia di suoni disarticolati e accavallati dalle 4 del mattino alle 2 di notte, tra rulli di motori e brusche frenate, tassisti in perenne corsa, venditori urlanti e una quantità selvaggia di clacson, inclusi quelli dei pulmini collettivi che, loro malgrado, ammaliano spargendo nell’aria una malinconica sonorità di nove note tutta da scoprire.
Impossibile non ritrovarsi almeno una volta nell’arco della giornata – specialmente al tramonto – a camminare sul lungomare delle corniche lasciando andare i propri pensieri e giocando ad indovinare quelli degli altri. C’è chi sorseggia tè e chi mangia makaroni sul muricciolo, chi prega e chi fotografa, chi vende gelati e chi pesca; chi corre dietro a un pallone e chi aspetta, con infinita pazienza, il lento morire dell’ultimo raggio di sole, al di là della baia, prima che le acque si tingano di carminio e l’orizzonte svanisca come il genio di una fiaba.
I gioielli della città
Quattro chilometri di passeggiata, incastonata, da un lato, dalla cittadella di Qaytbay, affascinante roccaforte islamica in stile mamelucco del XV secolo, custode di uno dei più emozionanti pavimenti a mosaico di tutta la città; e, dall’altra, la ciclopica e avveniristica Biblioteca Perduta di Alessandria, non solo fenice risorta dalle ceneri del passato, ma anticipo lungimirante del futuro, dove si respira speranza e si consolida la storia.
E in mezzo? La magniloquente Moschea Abu-Abbas El-Mursi, dedicata a un santo sufi vissuto a el-Andalus nel XIII secolo e le cui cupole svettano in lontananza con un commovente splendore in grado di confortare anche i cuori più duri. La solitaria Colonna di Pompeo e le due piccole sfingi a sua guardia, ultimi retaggi di un’antica gloria oggi tristemente accerchiata nella stretta morsa cementifera di fatiscenti palazzi e rovinosi orizzonti. Le catacombe di Kom el-Suqafa, impressionanti cavità sotterranee dove ammiccano ossa, tombe inviolabili e l’enigmatico pantheon degli dei egiziani. E il Teatro Romano, 42 metri di acustica in marmo bianco e granito rosa sempre a picco sotto il sole cocente.
Eppure, il l’anima profonda di Alessandria d’Egitto non è (solo) nei suoi scrigni millenari, ma tra le pieghe della vita di tutti i giorni, in quella quotidianità sbandierata a ogni singola svolta o angolo perduto, oltre le vie più strette, in mezzo alla gente accalcata senza pietà nei mercati dagli odori impossibili o sui pulmini sobbalzanti tra le buche; ai chioschi di cibo, dove le verdure fresche si alternano alla fame delle mosche in volo perenne; o sui tik-tok, mitici trabiccoli a tre ruote che sfrecciano senza regole né pietà ovunque si apra uno spiffero tra le auto in circolazione – circolazione selvaggia, si intende – e qualsiasi corpo ambulante che sulla carreggiata liberamente vaga come se fosse l’unico.
Ma il vero cuore pulsante è nella gente
Alessandria è una città non da visitare ma da cogliere. E per farlo, bisogna buttarsi, senza remore o timori, senza pregiudizi né aspettative, senza orologio. Bisogna osare oltre gli ingressi cechi di vecchi palazzi apparentemente abbandonati, per scoprire che, al di là delle scale oblique e i muri pendenti, ancora resistono ammirevoli fregi, raffinati stucchi e glorie estetiche di un intramontabile passato che non vuole morire. Bisogna lasciarsi guidare dall’ospitalità disarmante delle persone che smaniano di offrirti caffè e sorrisi; dai bambini che ti chiedono una foto insieme, senza null’altro in cambio; dagli artigiani che ti invitano nelle proprie botteghe, inclusi i panettieri, sempre pronti a lanciarti una pagnotta appena sfornata, ottima compagna di viaggio tra queste spirali dantesche che sembrano non finire mai.
Aggiustare auto per strada è la consuetudine più frequente. Così come giocare a backgammon o a biliardo – sempre per strada – pascolare pecore qua e là o lasciare il proprio asino a dormire con la testa appoggiata contro il carretto. Folclorismi eloquenti per chi ha cuore di osservare. Se passa un tram, è sicuramente ammaccato. Gravemente ammaccato. Ma misteriosamente inesorabile nel proprio dovere. Se c’è una Lada – e Alessandria pullula di questi romantici sovietismi – ha sicuramente due targhe, una egiziana e una europea che si intravedere appena sotto. Niente loschi traffici o rocambolesche fughe alla Arsenio Lupin. “Decoration!”, mi dicono, senza tanti giri di parole e con alzata di spalle finale, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Alessandria, Alessandria: signora del tempo, anarchica eleganza, città dal seducente centro non più storico dove, al primo refolo di vento, si lotta contro colonne di polvere che si sollevano da ogni dove, portando con sé i lasciti stratificati di mille vite, parole, lotte, sofferenze, esultanze, forse anche il sudore libertario di chi ha combattuto la rivoluzione del 1952 o le soldatesche impronte dell’Armata d’Oriente di Napoleone, qui invano sbarcate in cerca di gloria.