A Kuwait City, ops! Madīnat al-Kuwait, si respira ancora l’atmosfera da villaggio di pescatori, nonostante l’ultramoderno e ultrafuturistico skyline
Chiamatela Madīnat al-Kuwait. Non Kuwait City. Perché a dispetto della sua foggia ultramoderna, tutto luci sfavillanti e azzardate sperimentazioni architettoniche, questa città racchiude un’anima dal respiro secolare e radici ancorate a un passato fiero e ostinato che se ne infischia dell’oil boom e dei grandi magnati della finanza.
Da semplice accampamento di beduini a piccolo avamposto militare, la capitale del Kuwait incominciò a prendere forma solo nel XVII secolo, allargandosi poi fino alla costa per trasformarsi in un modesto villaggio di pescatori dall’atmosfera molto simile a quella che oggi si può respirare a ovest del porticciolo turistico di Souq Sharq, in una piccola baia punteggiata di barchette di legno, con le vele rattoppate, le reti sparse in perenne rammendo e i volti assolati dei marinai indiani che per nulla sfigurerebbero in una delle tante avventure di Emilio Salgari. Ebbe il suo picco di gloria nel 1700, quando divenne centro nodale del commercio tra l’Anatolia, l’Africa e le lontane Indie orientali. Nei suoi cantieri, si costruivano le navi più veloci; e al largo delle coste, si pescavano le perle più grosse. Un idillio che durò fino al gli Anni Trenta. Dopodiché vennero il buio e la povertà. Infine il petrolio e la ricchezza. Poi la guerra e la rinascita.
L’atmosfera di oggi
Madīnat al-Kuwait è oggi un miraggio che emerge dalle sabbie come l’ultima delle illusioni. Si solleva al limitare del deserto, in bilico sul Golfo, in un susseguirsi geometrico di edifici affilati e spigolosi, sempre pronti a fendere l’occhio anche alle lontananze più smisurate. Eppure, che sia alle tiepide soglie dell’alba o sotto i raggi sciabolati di mezzogiorno, tra le fiamme dirompenti del tramonto o nelle nere notti di stelle, questa città è sempre avvolta da un fatuo alone di granelli di rena dorati, così impalpabili da renderla più surreale e ingannevole di un racconto di Shahrazād. Viene il dubbio che esista davvero.
E forse aveva ragione l’autrice Zahra Freeth, figlia del colonnello britannico Harold Richard Patrick Dickson, quando scriveva che un tempo questo luogo possedeva un’aura remota e di pace, rappresentando uno degli ultimi baluardi dove rifugiarsi dalla fretta affollata del mondo occidentale. Dickson trascorse qui, con la propria famiglia, buona parte della sua vita, lavorando come amministratore per conto di sua maestà la Regina d’Inghilterra.
Gli edifici più interessanti
La casa di Dickson – a tutt’oggi visitabile e molto ben conservata – è una nicchia storica su un lungomare avveniristico. Un contrasto che si ritrova in tutta Madīnat al-Kuwait, intrigante affastellamento di vecchio e nuovo, di “nostalgismi” e futurismi, di tradizioni e audaci lungimiranze. Come la Grande Moschea in stile andaluso, la più grande delle 800 presenti in città, famosa soprattutto per la sua lunga fila di lampadari provenienti da Damasco, un trionfo di grandezza, intarsi e segreti che solo lo Shamal, l’indomabile vento del nord, è in grado di far pericolosamente oscillare.
O come le vertiginose e stroboscopiche Kuwait Tower. Genesi singolare, quella che le ha viste nascere: furono progettate da svedesi, costruite da jugoslavi e infine inaugurate al mondo nel 1979. Sfacciatamente ricoperte da piastre circolari colorate a pois funk, ospitano rispettivamente: una piattaforma panoramica rotante, una mostra fotografica permanente sui danni provocati dall’invasione irachena, un ristorante che serve tutti i giorni la colazione solo alle donne e un serbatoio per l’immagazzinamento dell’acqua.
Ma la vera spina dorsale di Madīnat al-Kuwait è il vecchio souq coperto, nel cui dedalo dei suoi vicoli contorti si annidano i caffè più rumorosi di tutta la città, dove il tè lo si prepara ancora sulla brace e i narghilè sfoggiano tubi lunghi almeno quanto le interminabili conversazioni che solo qui si ha l’occasione e il piacere di intavolare. Perché non c’è niente di più facile che intrattenersi con i kuwaitiani su quei morbidi divani di tappeti, sorseggiando insieme qualcosa di caldo, fumando con loro shisha e ascoltando storie che essi non vedono l’ora di raccontare, affascinanti quanto basta da far sorgere il dubbio che non siano vere.
Persone, voci, odori
Difficile congedarsi da un tale simposio. Ci si saluta con mille salamelecchi e la promessa di rivedersi di nuovo, cosa assai improbabile, visto che a zigzagare tra i negozi, ci si perde con disarmante facilità. Basta inseguire l’aroma caldo del kabsa (pollo o agnello arrosto su un letto di riso ricoperto di frutta secca e inondato di una decina di spezie diverse), oppure le essenze che esalano dall’estro dei mastri profumieri, orgogliosi di sfoggiare il miglior oud di tutto il mondo arabo, quello proveniente dal cuore più verde del sud-est asiatico. L’oud è una resina prodotta dalla vulnerabile pianta di Aquilaria quando viene infettata da un particolare tipo di muffa. L’odore in purezza è fecale. Il costo al grammo, vertiginoso. Il risultato in profumeria, indimenticabile.
Ma a proposito di odori, ce n’è un altro in realtà che, una volta sperimentato, non lo si dimentica davvero più: quello di pesce, nel mercato lungo il mare. Appiccicoso e irriverente, si diffonde come la peste dappertutto, in particolar modo durante le contrattazioni, veri e propri duelli che si consumano a suon di decibel e si concludono per qualche dollaro in più. Si getta la merce a terra, e subito venditori e acquirenti vi si raccolgono attorno, sbracciandosi a voce alta fino allo sfinimento, con gli inservienti che continuano a versare acqua sui pavimenti per mitigare l’olezzo e scongiurare gli scivoloni.
Quella magia indimenticabile
Turisti quasi non se ne vedono, a Madīnat al-Kuwait. Solo lavoratori. Il resto sono le candide vesti degli uomini kuwaitiani che, fedeli alla rigida dottrina del Wahabismo, indossano una lunga tunica bianca come la neve e uno shemagh sul capo, anch’esso bianco o a quadretti bianchi e rossi. Ammirarli nei loro movimenti discreti e sempre cadenzati – mai un passo frettoloso o un gesto fuori luogo – è un piacere per gli occhi e per l’udito. Queste stoffe cantano, frusciano nell’aria come presenze invisibili. Solo un dettaglio rende tali presenze, umane: il ritmico ondeggiare tra le dita del misbahah, collana di 33 piccole sfere tutte da sgranare, una dopo l’altra, glorificando mentalmente Allah. Dicono che questo rituale riduca lo stress e allontani i brutti pensieri. Una medicina, insomma. E a giudicare dalla naturale lentezza con cui i kuwaitiani conducono la loro quotidianità, assolutamente efficace.