Giungere a Recsk è come scendere all’Inferno. Senza fiamme, se non quelle della disperazione che corrode spiriti e carni. I libri di scuola hanno forse relegato questo paesino in un angolo remoto della memoria, ma non chi ci vive. Gli abitanti, infatti, non hanno dimenticato. A circa 3 km di distanza dal villaggio, proprio sotto la cava di pietra, il governo di Stalin mise in piedi, agli inizi degli anni ’50, uno dei più terribili campi di lavoro dell’epoca. Compito degli internati era spaccare la nuda roccia. Pare siano stati circa 1500 i prigionieri che sono passati da questo gulag di maltrattamenti e fame, dove le torture erano pratiche quotidiane per educare dissenzienti e contrari al regime. Impossibile la fuga. Solo due i tentativi andati a buon fine. Nel primo, un prigioniero riuscì a scappare nell’allora Cecoslovacchia, ma fu un’evasione che costò cara alla sua famiglia la quale venne subito arrestata dalle Forze dell’Ordine. Nel secondo, invece, ben otto detenuti riuscirono a eludere i controlli. Il successo dell’impresa fu attribuito al travestimento di uno di loro che, indossati gli abiti delle guardie, condusse gli altri sette fuori dal campo. Ma vennero catturati. Solo uno si salvò e, una volta giunto a Vienna, lesse ai microfoni di Radio Free Europe i nomi di tutti i 600 imprigionati di quel girone infernale. Dopo la morte di Stalin, avvenuta il 5 marzo 1953, il neoeletto presidente Imre Nagy fece distruggere il campo di concentramento, con tutti i suoi edifici, le sue torri e le recinzioni. Ma per non dimenticare l’orrore di quel luogo, il campo venne fedelmente ricostruito, nel 1996, in un sito poco distante dalla location originale e trasformato in una sorta di museo. La ricostruzione fu resa possibile grazie alle poche foto recuperate e alle testimonianze dei sopravvissuti. Ad oggi, molti corpi di coloro che qui morirono non sono ancora stati ritrovati…